Gli Stati Uniti tra propaganda, armi e non solo, come si intossica un popolo


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Nella Repubblica di Weimar si sparava all’impazzata. Due gli omicidi politici più usati per manipolare l’opinione pubblica. L’America oggi non è la Germania degli anni Trenta. Ma per quel poco in cui si assomigliano, vengono i brividi
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Si ammazzava, ci si ammazzava a tutt’andare. Per odio politico, per odio etnico, per odio di classe, per tigna, per vendetta, per odio tout court. O anche solo per ammazzare la noia. Il paese sembrava stregato dai serial killer. Si sparava all’impazzata, contro leader e candidati, ai comizi, nelle scuole. Ma due omicidi politici fecero particolarmente impressione, furono utilizzati, manovrati, per segnare una svolta nell’opinione pubblica. Horst Wessel aveva 22 anni quando quella sera del 23 febbraio 1930 bussarono alla porta dell’appartamento nel centro popolare di Berlino. Andò ad aprire e gli spararono in faccia. Non era uno stinco di santo. Era già stato promosso Sturmführer delle SA, le truppe d’assalto naziste in camicia bruna. Leggenda vuole che avesse carisma, fosse bravo nel discutere e nel convincere quelli della parte avversa. Carisma o no, il grado raggiunto ne fa uno specialista nell’organizzare squadracce, pestaggi, spedizioni punitive. Milizie di destra e milizie di sinistra si massacravano da anni per le strade, alle manifestazioni dell’una e dell’altra parte. Ma era, a quanto pare, la prima volta che andavano a cercare la vittima a casa, non nel pieno della mischia.
Non è chiaro quale fosse il movente dell’aggressione. Aggressore e vittima si conoscevano, Frequentavano gli stessi locali malfamati nei bassifondi attorno ad Alexanderplatz. L’assassino era un attivista comunista con precedenti di piccola criminalità, era stato in prigione per sfruttamento della prostituzione. Una giovane prostituta, conosciuta da entrambi, era venuta da qualche mese a vivere con Horst. Si amavano. Talvolta facevano bisboccia e chiasso. C’è chi dice fosse lei a tirare fuori i soldi per l’affitto. Altri dicono che lei si faceva pagare per denunciare chi dei clienti avesse simpatie comuniste. Altri invece dicono che tutto nasceva dal fatto che l’affitto non lo pagavano più per niente. L’affittuaria dei locali, una donna ancora giovane, ventinovenne, ebrea, vedova di un comunista ammazzato dai nazisti, li voleva fuori, lui, il nazista, e quella ragazza di scarsa virtù. Avrebbe chiesto aiuto agli amici di partito. Secondo un’altra versione si sarebbe trattato piuttosto della tragica conclusione di un litigio tra magnaccia. La cosa che ci interessa qui non è però il “chi è stato” (questo lo si sa), e nemmeno il “perché l’ha fatto”. E’ il modo assolutamente geniale con cui il gauleiter della federazione berlinese del Partito nazionalsocialista, Joseph Goebbels, riuscì a fare di Horst Wessel il martire assoluto, l’eroe puro e della causa nazista. Insomma a farne un Santo in piena regola, con tanto di miracoli all’attivo.

Era stato Goebbels a scoprirlo al primo grande raduno nazista di Norimberga, nel 1927, poi a farlo venire a Berlino da Vienna, dove l’aveva mandato a farsi le ossa ad organizzare la locale Gioventù hitleriana. Lo faceva scrivere per il giornale da lui diretto, Der Angriff, l’Attacco. Ritrovò (o gli attribuì) i versi di una canzone da lui scritta. Banalucci, copiati pare da un vecchio canzoniere socialista, con musica orecchiata da altri inni militanti. “Die Fahne hoch!. In alto la bandiera! / I ranghi ben serrati! / Le S.A. marciano / …Marciano i camerati uccisi dal Fronte rosso e dalla Reazione”. Sarebbe diventato assieme a Deutschland über alles, e a Lili Marlene, il motivo più cantato nella Germania nazista, anzi l’inno ufficiale. In Germania è ancora proibito. Di tanto in tanto riaffiora ai raduni necrofili neofascisti, quelli del “Camerata… Presente!” e della selva di mani alzate di scatto e all’unisono. Se n’erano appropriati, in versione italiana, i ragazzi di Salò. La cantava un mio compagno fascista del ginnasio. Ai miei figli andò anche peggio. Gli capitò un’insegnante di lingue che voleva insegnargli il tedesco sul testo della Horst Wessel Lied. Di tedesco, dopo cinque anni con quell’insegnante, non spiccicano una parola.
Fu cantata ai funerali, organizzati con cura, coreografati nei minimi particolari da Goebbels in persona. Horst, della ferita era in realtà guarito (il primo dei suoi miracoli). Era stato dimesso e rimandato a casa. Morì per una setticemia contratta in corsia. Anche a quei tempi gli ospedali erano posti pericolosi. I disservizi di una sanità pubblica, per tutti, sino ad allora considerata una delle migliori nel mondo, era una delle ragioni per cui le gente ce l’aveva con le amministrazioni di centrosinistra della Germania di Weimar. Il martellamento sul mito, orchestrato da Goebbels, divenne poi ossessivo. Se ne fecero romanzi, film.

La cosa curiosa è che, con grande disappunto di Goebbels, Hitler aveva scelto di non partecipare a quei funerali. Dai diari di Goebbels sappiamo che fu Goering a dissuaderlo. Vennero addotti motivi “di sicurezza”. E’ vero che, a differenza che nella Germania periferica, in quel momento le strade di Berlino le controllavano le milizie del Reichsbanner, il Fronte democratico e socialista, e quelle comuniste del Roterfront, il Fronte rosso. I nazisti nella capitale erano ancora minoranza. Ma non risulta che Hitler si sia mai sottratto ad alcuna occasione di presenza pubblica, protetto com’era dalla sua guardia armata personale, le SS. Forse Hitler era già infastidito dall’avventurismo rivoluzionario e dalle violenze gratuite delle SA di Ernst Röhm (i rivali a destra li avrebbe sterminati nella notte dei lunghi coltelli, giusto l’anno dopo la nomina a cancelliere). Lui aveva già abbandonato la strada del golpe, perseguiva quella elettorale e politica. In quel momento puntava di più sul perbenismo. In nessun caso avrebbe voluto scontrarsi con la polizia e le forze armate. Forse non considerava fosse il caso di venir coinvolto in un delitto che agli occhi dei lettori di giornali dell’epoca aveva a che fare con criminalità comune, rivalità di ruffiani, contese passionali.
Il corteo col carro funebre tirato da cavalli neri, scortato dalle SA con le loro svastiche, seguito da alcune decine di migliaia di persone, passò provocatoriamente da Bülowplatz, nel quartiere di Scheunenviertel, dove era la sede del Partito comunista. L’intero quartiere, a forte popolazione ebraica, sarebbe stato, dopo la presa del potere da parte dei nazisti nel 1933, fatto oggetto di una pulizia etnico-urbanistica che lo liberò dalla fetida presenza “giudeo-bolscevica”. Con “una scopa di ferro”, vantarono i nazisti. Il corteo funebre di Horst Wessel fu fatto segno a sassaiole, a slogan e canti dell’Internazionale, a dileggi, e anche a lazzi osceni. Sul muro del cimitero verso cui era diretto nella notte era comparsa la scritta: “A Wessel, il magnaccia, un ultimo Heil Hitler!”. Non ci furono quella volta scontri o altri incidenti. Ma sull’effetto politico e propagandistico aveva ragione Goebbels. Non porta mai bene insultare i morti. Men che meno i morti ammazzati. Figurarsi i santi e i martiri.

L’altro assassinio a lasciare un segno profondo fu “l’Affare Potempa”, nell’agosto 1932. Le elezioni politiche di fine luglio avevano fatto del Partito nazional socialista il primo partito, con un terzo circa dei voti. Fu il loro miglior risultato in un’elezione ancora libera. Il risultato aveva ringalluzzito la violenza delle SA. Avevano lanciato un vera e propria campagna di terrore, esaltata dal Völkischer Beobachter, il giornale ufficiale del partito come “inizio dell’annichilimento del banditismo assassino rosso”. Il governo dell’ultrà cattolico Franz von Papen, già dimissionario, aveva emanato il 9 agosto due decreti d’emergenza, volti ad imporre una “tregua” alla violenza politica. Uno, proibiva assembramenti politici e raduni di piazza. L’altro, imponeva la pena di morte per gli assassinii politici. Un colpo alla botte e uno al cerchio: i nazisti primeggiavano in ammazzamenti, la sinistra in manifestazioni di piazza. La notte stessa dell’entrata in vigore dei decreti, a Potempa, paesino minerario al confine con la Polonia, una squadraccia di SA aveva fatto irruzione a casa di un bracciante e l’aveva ammazzato. Si chiamava Konrad Pietzuch. Oltre a dichiararsi comunista aveva anche un cognome polacco. Al processo i responsabili furono, in osservanza della nuova legislazione, condannati a morte.
La reazione di Hitler, era stata ambigua. Da una parte era costretto a difendere i “suoi” assassini, premuto com’era dagli estremisti nelle sue file. Le SA, il suo movimento MAGA, scalpitavano per una spallata rivoluzionaria. Dall’altra, essendo arrivato primo alle elezioni, sperava che il presidente della Repubblica nominasse cancelliere lui, quindi aveva convenienza a presentarsi come rispettoso dell’ordine, delle leggi e dell’aborrita Costituzione di Weimar. Condannò la violenza, ma espresse solidarietà ai camerati assassini, e si pronunciò decisamente contro le condanne a morte. Furono tutti scarcerati quando Hitler divenne cancelliere. C’è chi raccontò in seguito di averlo sentito esporre una curiosa tesi giuridica: “Una nazione può condonare e dimenticare molte cose che succedono, in tempi turbolenti come i nostri, se si producono nel contesto di un conflitto aperto tra sostenitori di visioni contrapposte. Se ci sono scontri di piazze, e venti o trentamila tedeschi perdono la vita, la nazione sarà in grado di riprendersi. La ferita prima o poi si rimarginerà. Come dopo una battaglia in campo aperto. Ma un’ingiustizia, una sentenza di morte pronunciata a freddo ed eseguita contro il senso di giustizia innato del popolo, l’esecuzione, come se fossero comuni criminali, di uomini che hanno agito nel fuoco della passione per la propria nazione, non verrebbe dimenticata”. Da che pulpito veniva quel “nessuno tocchi Caino”!

L’imbarazzo di Hitler somiglia un po’ a quello di Trump. Voleva e non voleva forzare la mano. La sua popolarità, tanto impetuosamente conseguita, vacillava, a destra come a sinistra. Tanto che, nelle successive politiche, riconvocate in autunno perché non si riusciva ad esprimere nessuna maggioranza, il partito di Hitler avrebbe perso 2 milioni di voti. Furono, mutatis mutandis, le loro elezioni di mid-term. La stampa, anche quella conservatrice (metà dei giornali erano in mano al magnate dei media, e ultrà di destra Hugenberg), cominciava a darlo come “politicamente finito”. Il presidente della Repubblica, Hindenburg, che lo aveva da poco battuto in un’infuocata competizione diretta, si ostinava a bocciargli la nomina a cancelliere, in quanto capo di una formazione “anti-costituzionale”. Salvo farsi convincere, qualche mese dopo, nel gennaio 1933, dalla vecchia volpe Papen, che Hitler era ormai indebolito e “controllabile”.
Tempi tristi quelli in cui un capo fazione si cava d’impiccio con l’argomento “Il mio odio è sacrosanto. Quello fomentato dagli altri è impuro. Il mio assassino è un brav’uomo. Quello dell’altra parte è una bestia da abbattere”. Il primo post di Elon Musk sulla sua piattaforma X dopo l’assassinio di Charlie Kirk era stato per definire il Partito democratico come “partito degli assassini”. Giorgia Meloni ha preso al volo l’imbeccata. Netanyahu l’imbeccata non l’aveva neppure attesa. Chi lo critica in Israele sarebbe ipso facto complice di Hamas. I momenti in cui l’odio viene misurato con bilance false hanno sempre annunciato tempi ancora più tristi. In cui si esecrano solo gli assassini della parte opposta, e quelli della tua parte vengono giustificati, anzi esaltati come patrioti e giustizieri. Specie se a farlo e a dirlo è il capo di una parte che si ritrova a governare, uno che dovrebbe calmare gli animi, non buttare benzina sul fuoco.
Il primo gesto di Trump da presidente era stato graziare i suoi Proud boys, i 1500 bravi ragazzi condannati per aver dato l’assalto a Capitol Hill nel gennaio 2022. Volevano ammazzare la speaker democratica Nancy Pelosi e impiccare il vice di Trump Pence, colpevole di non voler annullare l’elezione di Biden. E nel corso del loro “generoso” tentativo di insurrezione, si erano lasciati dietro una scia di morti. Non una parola di biasimo, mai, per i molti assassinii politici di segno opposto in questi mesi. Niente di sorprendente. E’ il primo presidente della storia degli Stati Uniti che ha ostentatamente rifiutato di presentarsi come “presidente di tutti gli americani”. Gli basta esserlo di una parte, la metà che lo ha eletto.

Tutti, a destra e a sinistra, parlavano di guerra civile alle porte. Anzi, già in pieno svolgimento. I comunisti ritenevano la violenza ineluttabile, una necessità storica dello scontro di classe. I socialdemocratici deprecavano gli “schiamazzi rivoluzionari”, l’infantilismo, il “teppismo politico”, il “romanticismo da banditi”, “le bestialità” della sinistra estrema. Denunciavano una collusione di fatto tra le “confraternite della Svastica e della Stella sovietica”. I comunisti rispondevano dando dei “traditori di classe”, dei “socialfascisti”, ai socialdemocratici. I nazionalsocialisti (anche il partito di Hitler non poteva fare a meno di chiamarsi partito “socialista”, anzi “dei lavoratori tedeschi”) identificavano sia i socialisti che i comunisti come “marxisti”. Quindi come nemici giurati del Popolo tedesco. Nemici al pari degli ebrei, anzi in quanto molti di loro erano anche ebrei.
Esattamente come Trump mette tutti nel solo mazzo della Radical Left. Il termine non si limita ad indicare gli estremisti. Comprende tutti gli avversari politici. A cominciare dai suoi predecessori alla Casa bianca, Biden e Obama in testa. I democratici sono cattivi, corrotti e malvagi orditori di complotti. Lo sono per vocazione, anzi per natura. Sono loro dietro la peste ideologica “Woke”, dietro i giudici che gli danno tanti fastidi, dietro l’“invasione” di immigrati clandestini. Sono i governatori e i sindaci democratici a difendere la “feccia criminale” che inquina le strade delle magnifiche città Usa. Sono loro a sabotare gli sforzi per “fare l’America grande di nuovo”. Sono loro a fomentare l’odio che fa premere il grilletto agli assassini.
Cinque anni fa avevo scritto, per Feltrinelli, un libro, Sindrome 1933. E’ ancora in commercio. Una traduzione in spagnolo, con una nuova introduzione che lo aggiorna, sembra ne abbia fatto un “bestseller mundial”. Era un pamphlet sulle analogie tra le cose che succedevano e si dicevano nella Germania degli anni 30, e l’attualità. Trovò un lettore appassionato in Papa Bergoglio, che continuava a citarlo imperterrito, invitando a leggere il libro di “un intellettuale italiano del Partito comunista” (si riferiva al fatto che il giornale su cui ho scritto più a lungo era l’Unità, un tempo organo del Pci). Avrebbe potuto aggiungere ebreo, e per giunta non credente. A risfogliarlo, sono colpito, anzi atterrito, nel constatare come non sia invecchiato. Le analogie che allora mi avevano colpito si sono estese a dismisura, su scala planetaria. Le analogie storiche sono un terreno infido, in genere lasciano il tempo che trovano. Talvolta sono controproducenti. Non c’è nulla di più orripilante degli incubi e delle profezie che si realizzano. L’America di oggi non è la Germania degli anni ‘30. Trump non è Hitler. Ma quel poco (o tanto?) in cui si somigliano fa venire i brividi.
Tra le analogie, c’era anche il tema della manipolazione costituzionale. Hitler era stato consacrato da elezioni democratiche, che gli avevano dato, ad un certo punto, una maggioranza relativa di circa un terzo dei suffragi. A sdoganare i nazisti e portarli alla testa del governo ci aveva pensato il centrista Papen. Meno si ricorda che l’anno prima, nel 1932, un colpo di Stato c’era stato. L’allora cancelliere Papen aveva esautorato e commissariato il governo di coalizione a trazione social-democratica della Prussia, il più popoloso ed esteso dei Länder tedeschi. Da solo comprendeva due terzi della popolazione e del territorio, dalla Sassonia alla Slesia, compresa Berlino. Era lì che ci si ammazzava più che in tutto il resto della Germania. Il governo di centro-sinistra veniva accusato di non reprimere abbastanza. Furono messe fuori legge le milizie comuniste, ma fu lasciata mano libera ai nazisti. La cosa finì dinanzi allo Staatsgerichtshof, la corte suprema cui la Costituzione di Weimar assegnava la soluzione delle dispute tra governo centrale e singoli Länder. Si sfidarono per mesi i migliori cervelli giuridici, dal filonazista Carl Schmitt ai liberal e progressisti Hans Kelsen, Hermann Keller e Arnold Brecht. La sentenza arrivò quando i giochi erano ormai fatti. Ora si attende col fiato sospeso la pronuncia, probabilmente a novembre, della Corte suprema Usa sulle circa 300 cause intentate per abuso di potere contro Trump.
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