L’inatteso boom del vintage maschile

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Il Foglio della moda
Il settore non è affatto residuale ed è in forte crescita: +88 per cento negli ultimi tre anni. Ora l'usato non più percepito come unica risorsa per studenti squattrinati ma come attitudine da connaisseur, da raffinati intenditori
La piattaforma per l’acquisto e la vendita di capi di seconda mano Vestiaire Collective ha da poco pubblicato il primo report sulla moda circolare maschile, una categoria nella quale è evidente una strategia di espansione. A margine della presentazione del rapporto, Maximilian Bittner, ceo di Vestiaire Collective, ha confermato una forte crescita del segmento (+88 per cento negli ultimi tre anni), segno che, all’interno di quello che è un mercato ormai multimiliardario, l’abbigliamento maschile oggi non è affatto residuale.
Si tratta di una reale novità o soltanto dell’adeguamento delle piattaforme ai gusti della clientela maschile? A mio giudizio, questo incremento dipende piuttosto da un insieme di fattori, amplificato e globalizzato dai creator digitali che si propongono come veri e propri consulenti di “quality, vintage & luxury fashion” (Elliot Duprey, uno per tutti).
In tempi recenti, un piccolo boom del second hand per uomo si era già registrato durante la pandemia, complice il maggior tempo da passare tra le mura di casa; le ricerche online, tra le innumerevoli video call in giacca e cravatta e, spesso, pantaloni della tuta, hanno, per contro, fatto scoprire a molti il piacere della caccia al capo cult, e soprattutto hanno ribaltato lo “stigma dell’usato” in un segno di distinzione: il vintage dunque non più percepito come unica risorsa per studenti squattrinati ma come attitudine da connaisseur, da raffinati intenditori sulle tracce tanto di un Levi’s introvabile che di un borsone Louis Vuitton d’annata.
Per l’abbigliamento donna l’evoluzione dall’acquisto di nicchia e un po’ temerario in fenomeno di massa (il capo usato suscita tuttora in molti qualche riserva) è avvenuta con almeno due decenni di anticipo, in parallelo con il ricorso agli archivi e al mantra dell’ heritage, che ormai perfino i direttori dei periodici di moda, usi ad obbedir tacendo, dichiarano di non voler più sentire. La datazione arretrata di un capo (“vintage” deriva deriva da vendange, vendemmia, nozione inclusiva dell’invecchiamento come fattore di preziosità) è quindi diventata un valore, a prescindere dall’etichetta – conquistata a posteriori - di sostenibilità, etichetta rivendicata soprattutto dalle piattaforme a larga diffusione come Depop e Vinted, che pur concorrono al degrado ambientale con milioni di spedizioni in ogni angolo del mondo. Al successo di questo segmento della moda, hanno contribuito la possibilità di recuperare i classici dello stile, la percezione di una manifattura e qualità superiori o, in alternativa, la possibilità di seguire le tendenze più eclettiche di una moda spesso votata al revival. Questo però ha allargato a dismisura l’ombrello già abbastanza sfilacciato della dicitura “vintage” (il discrimine dei vent’anni per la qualificazione dei capi è molte volte puramente formale), sotto il quale si trova di tutto, confusamente e casualmente, qualsiasi tipo di capo e non sempre di buona qualità, per fattura o per design. Il menswear “pre-loved” (definizione ora molto usata che aggira i vincoli di datazione) segue una strada diversa, ed è un input utile a resettare anche il comparto donna: l’obiettivo non è infatti l’acquisto emozionale o d’impulso, ma la ricerca del capo singolo con caratteristiche specifiche.
Piattaforme a parte, i rivenditori specializzati lo sanno bene, sono tanti i capi e gli accessori del Novecento che da molto tempo si vendono benissimo, e di tante tipologie diverse: il centro A.N.G.E.L.O. a Lugo di Romagna ha dedicato parte del suo business di vendita al denim d’epoca, mentre marchi sportswear d’antan come CP Company – Stone Island, Filson o Spiewak contano schiere di appassionati se non collezionisti. Altri si concentrano sui blazer classici in lane pregiate, tuxedo, giacche Barbour e impermeabili Burberry, a volte frutto di ricerche mirate per taglia e colore su indicazione dei clienti che desiderano uno stile formale e vagamente “old money” senza spendere cifre impossibili.
Al di là dei numeri in aumento, quello che risalta dal dettaglio degli acquisti del vintage uomo è il concetto di “selezione”, che c’entra poco o nulla con lo status symbol o la nostalgia troppo a lungo venduta come novità per molta moda femminile.
Selezionare è un antidoto all’acquisto acritico e inutile, e investire (letteralmente: secondo Vestiaire Collective il 70 per cento degli acquisti uomo è fatto guardando anche al potenziale di rivendita) in capi atemporali o in cult personalissimi è una pratica di sostenibilità reale e salutare per il proprio guardaroba, senza correre il rischio di annoiarsi nel volgere di una stagione.
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