Luigi Aversa, esploratore del mistero tra Jung e Krishnamurti


FACCE DISPARI
Presidente del Centro italiano di psicologia analitica e fondatore assieme a Mario Trevi della rivista semestrale Metaxù, ha intrecciato ricerca medica e dialogo con grandi maestri, tra esperimenti paranormali, insegnamenti junghiani e una vita aperta al vento del mistero
Una vita tra scienza medica e “esperienze di confine”, tra gli insegnamenti di Carl Gustav Jung e gli incontri con Jiddu Krishnamurti, il celeberrimo maestro spirituale indiano. Il professor Luigi Aversa, psichiatra, è stato docente a La Sapienza e a Tor Vergata, presidente del Centro italiano di psicologia analitica e fondatore assieme a Mario Trevi della rivista semestrale Metaxù. Può raccontare tante avventure quanto quelle di un esploratore, ma le sue si sono svolte nelle latitudini dell’anima.
La scintilla scoccò nella biblioteca del padre Bruno, poliziotto atipico, che diresse la squadra mobile di Roma ma coltivava l’interesse per le filosofie orientali e lo spiritismo mentre indagava sui casi della “nera” capitolina di quegli anni, tra cui il giallo di Wilma Montesi e lo scandalo del Rugantino, dove lo spogliarello della ballerina Aiché Nanà il 5 novembre 1958 segnò il convenzionale inizio della “dolce vita”.
Lei come cominciò?
Mi colpì moltissimo a quattordici anni la lettura di “Autobiografia di uno yogi” di Paramahansa Yogananda. Nel contempo mio padre mi raccontava dei fenomeni cui aveva assistito nelle sedute spiritiche che si tenevano nei cenacoli di Napoli dove lui, studente fuorisede calabrese, aveva frequentato l’università.
Ne fece anche lei?
Con lo psicoanalista Emilio Servadio, che studiò approfonditamente la parapsicologia. Ricordo gli esperimenti assieme ad Amedeo Rotondi, il quale sosteneva la realtà dell’aldilà, mentre secondo Servadio i fenomeni paranormali erano frutto dell’inconscio. Per risolvere la diatriba ci costruimmo un personaggio immaginario in tutti i particolari e dopo qualche tempo organizzammo una seduta con una medium completamente ignara. Quando andò in trance, si presentò il nostro personaggio riferendo ogni dettaglio che avevamo pensato. Servadio disse: ciò prova che è l’inconscio. Poi la medium cominciò a snocciolare particolari che non avevamo stabilito e Rotondi osservò: ciò prova che non è solo l’inconscio. La diatriba rimase insoluta. Intanto frequentavo Medicina e scelsi di specializzarmi in psichiatria, così dal quarto anno di facoltà frequentai la clinica della Sapienza diretta da Andrea Dotti, marito di Audrey Hepburn.
La conobbe?
Conservo una clessidra d’argento che mi regalò alla laurea. Per mantenermi facevo le guardie alla clinica San Valentino sulla Cassia. Qualche anno dopo conobbi Krishnamurti, che avrebbe segnato la mia vita.
Come avvenne?
A Natale scesi a Catanzaro, dove mio padre aveva chiuso la carriera da questore tornando nella terra d’origine. In una sua rivista, L’età dell’Acquario, lessi un articolo su Krishnamurti che terminava con la famosa frase: “La verità è una terra senza sentieri”. Ripartii per Roma e non ci ripensai, ma pochi giorni dopo mi svegliai con un numero telefonico che martellava nella mente. Lo composi e rispose un signore che mi disse di occuparsi proprio della diffusione del pensiero di Krishnamurti in Italia. Andai a trovarlo e gli chiesi se era possibile incontrare il maestro e giusto allora squillò il telefono: dovendo andare dall’India in California, Krishnamurti si sarebbe fermato a Roma nel weekend successivo.
Cosa ricorda di quella prima volta?
Era domenica 5 febbraio, data del mio compleanno. L’incontro avvenne in casa della maestra di yoga Vanda Scaravelli in via Barnaba Oriani ai Parioli. Nel salone c’erano una quarantina di persone tra cui Gillo Pontecorvo, Federico Fellini e Oriana Fallaci, che scrisse un reportage per il Corriere della Sera. Krishnamurti parlò per un’ora emanando tale energia da far vibrare i vetri. Mi colpì lo sguardo impersonale, come se ti attraversasse. Negli ambienti teosofici s’ipotizzava che fosse la reincarnazione di Gesù. Un uditore glielo chiese e lui ribatté: “Se lo sono farai più attenzione a quel che dico? Se non lo sono ne farai di meno? Chi ha veramente sete di verità beve l’acqua e non bada alla brocca”.
Lo rivide?
Ogni volta che passava per l’Italia. Un giorno persino all’aeroporto dove fece scalo per due ore. Ci andai con Vanda Scaravelli, Grazia Marchianò e Topazia Alliata. Riuscimmo ad avere una saletta privata grazie a circostanze davvero singolari. Che Krishnamurti, non c’è dubbio, suscitava.
C’è un episodio che la impressionò più di altri?
Un’esperienza astrale che mi avvenne in modo spontaneo. Avvertii il mio corpo come una sfera ascensionale che ondeggiava a velocità sempre più vertiginosa e in una dimensione sempre più luminosa, finché provai paura di morire e m’imposi la fine del fenomeno.
Come integrò queste esperienze con la psicologia analitica?
Ne parlai con Trevi, mio primo analista junghiano. Era prudente ma capiva che erano esperienze genuine su un aspetto del profondo e consigliò di utilizzarle al meglio. Jung stesso, come si sa, s’occupava di fenomeni paranormali.
Ha mai incontrato il sensitivo torinese Gustavo Adolfo Rol?
Mi portarono una sera a casa sua. Non fece esperimenti ma ogni tanto sembrava un po’ rapito altrove, in un’atopia socratica.
Oggi l’interesse per la spiritualità è più o meno forte rispetto ai suoi anni giovanili?
Il rapporto col profondo mi pare più carente. S’interroga ChatGPT, ma l’aspetto animico rimane sotterrato. C’è paura di ammettere il confronto con la dimensione del mistero, che per definizione non può essere posseduto: si capisce solo se accade e non si può pretendere che te lo spieghino. Krishnamurti portava l’esempio del vento: se volete che entri nella stanza aprite le finestre, però potrebbe non entrare. La garanzia è una richiesta dell’io non ottemperabile. L’importante è prestare attenzione, ossia cogliere la dimensione misterica in ogni cosa osservata.
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