Faust, guidaci tu

Il suo desiderio forsennato come antidoto al nichilismo. Perché stringere oggi un patto con Mefistofele non è una cattiva idea
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Nel nostro mondo, spaventosamente e superficialmente laicizzato tanto da essere pronto a credere a tutto, non si parla più, neppure in questa ora così difficile e violenta, di colui che per millenni è stato considerato il vero Re di questo mondo: il diavolo! Egli è ciò che si oppone al Regno di Dio, egli è, per eccellenza, il suo Avversario. L’origine greca del termine porta con sé molti significati tra loro affini, “generare inimicizia”, “generare conflitto”, e più genericamente “negare” “separare” “dividere”. E’ ciò che tiene lontano l’avvento del Regno, ciò che vuole distruggere per fissione, non unire tutto in una fusione definitivamente pacifica. E’ una forza che vuole allontanare per dominare sulle macerie di ciò che è fatto a pezzi, infranto. Tuttavia, senza separazione, senza divisione, nulla può venire a essere. Senza il conflitto, senza la negazione, di cui il diavolo è archetipo, non c’è possibilità della dinamica necessaria alla vita, non c’è azione o attività. E’ questo un tema imprescindibile del pensiero occidentale, basta ricordare che per un pensatore come Spinoza, che pure rivendicava l’unità della sostanza come assoluto, ogni determinazione non è altro che negazione.
La distinzione è negazione. Dove non c’è conflitto non c’è azione e non c’è dunque neppure scelta, che è ciò che determina l’identità di una persona e quindi le sue relazioni e il suo posto nel mondo. Non è un caso che la figura letteraria più significativa degli ultimi secoli, il Faust di Goethe, sia quella che per vivere, per non morire di disperazione, ha dovuto segnare un patto con il diavolo, preferendo, in apparenza, la dannazione a una vita modesta come tutte le altre: “Dal cielo pretende le stelle più belle / e dalla terra i piaceri supremi, / né cose vicine né cose lontane / sanno calmare quel suo animo convulso”. Tutta la sua erudizione non ha portato Faust più vicino di un palmo a una qualche soddisfazione, anzi, è ormai vicino al suicidio quando, prima le campane di Pasqua e poco dopo la comparsa di Mefistofele, lo salveranno.
E’ bene sgombrare subito il campo da un grande equivoco in cui spesso si cade pensando a Faust. Egli non cede direttamente l’anima al diavolo, fa piuttosto con lui una scommessa. E’ vero che Mefistofele si impegna a dare a Faust ciò che egli desidera di più e che in cambio Faust si impegna a cedergli l’anima dopo la morte, ma la morte di Faust non sarà una semplice morte naturale, perché nel momento stesso del patto Faust diventa qualcosa di più di un uomo, o forse l’Uomo (occidentale!). Faust potrà morire solo quando il suo streben sarà placato, quando il suo desiderio di tutto conoscere, conquistare, sedurre, creare, controllare, trasformare, gli verrà a noia: “Quando io mi fermi, essere lo schiavo / tuo o di altro, che importa!”. Quando la potenza dinamica, il desiderio inesausto (“Desiderare con ogni mia forza / è appunto quello che prometto”) che lo spinge tra le braccia del demonio, sarà soddisfatto. Solo quando lo streben, che è un dinamismo irriducibile fonte dei più grandi slanci, del più potente vigore e della più profonda angoscia, sarà placato, allora Faust potrà morire, avrà perso la sua scommessa e sarà pronto a cedere l’anima. Faust: “Se mai prenderò requie su letto di pigrizia / sia per me la fine, allora! / Se potrai illudermi a segno / che io sia gradito a me stesso, / se mi potrai, nel piacere, ingannare, / sia quello il mio ultimo giorno! / T’offro questa scommessa”. Mefistofele: “Accetto”. Faust: “E qua la mano. / Dovessi dire all’attimo: / ‘Ma rimani! Tu sei così bello!’ / allora gettami in catene, / allora accetterò la fine!”.
Faust vivrà una lunghissima vita, spinto dal proprio streben e affiancato da Mefistofele nelle imprese più grandiose. Ormai molto vecchio guarda le opere da lui compiute: “Là, per vedere lontano, vorrei / costruirmi un palco fra i rami, / aprire ampio corso allo sguardo / per vedere tutto quello che ho fatto io, / per dominare con un solo sguardo / il capolavoro dello spirito umano / che con il proprio ingegno ha creato / questa distesa abitabile ai popoli. / Nell’abbondanza sentire cos’è che ci manca, / questo è il tormento più amaro”. Ormai è debolissimo e cieco, ma il suo streben non si placa, sebbene Mefistofele gli stia già scavando la tomba e si stia preparando a prendere la sua anima.
Ma prima di arrivare alla conclusione della tragedia di Faust, diamo campo a Mefistofele. Egli è notoriamente “una parte della forza / che vuole sempre il male e opera sempre il bene”, e nella nota a questo verso Franco Fortini scrive: “Il verso definisce Mefistofele come parte della forza negatrice che oggettivamente collabora alla positività intesa come bene”. E’ l’operatore di distruzione, ciò che divide, separa, eppure è totalmente necessario alla creazione in quanto forza oppositiva, termine dialettico negativo, affinché ci sia qualcosa invece che il niente. Mefistofele è infatti inviato presso Faust dal Signore che dice: “Erra l’uomo finché cerca”, e con questo cerca viene tradotto streben. Quindi lo streben, che è l’essenza della ricerca, implica errore che “è condizione per giungere alla verità, implica la positività della lotta e dello sforzo, della tensione e del tentativo.” Solo il diavolo, con la sua potenza divisiva, può essere in grado di mettere in moto questo circolo che determina la vita umana e la persona, la sua identità, la sua azione. Il dialogo tra il Signore e Mefistofele annuncia il tema della contesa: l’anima di Faust, l’essenza dello spirito umano.
E’ fondamentale notare come da questa oscillazione continua tra bene e male, da questo apparente relativismo, non sorge alcun nichilismo quanto invece la base mobile, cangiante, indeterminata, contraddittoria eppure assoluta, in quanto imprescindibile, di ogni azione. Nell’accettazione della contraddizione, anzi, nella sua introiezione, e quindi nel viverla, si supera il nichilismo perché non lo si permette, in quanto non può emergere come frutto del fallimento di qualcosa di fisso e dato una volta per tutte. Faust ci impone una verità grandiosa e tragica ma in ultima analisi creatrice dello spirito dell’uomo che si rinnova sempre attraverso lo streben e vince così il nichilismo. Lo sviluppo di tutto ciò che accade di umano, come azione, è necessariamente legato a questa tensione che mai può cessare. Così il diavolo è effettivamente padrone del mondo: negando e dividendo, ponendo in conflitto, permette la vita.
Ma Mefistofele è comunque la forza che vuole sempre il male. Faust, alla fine del poema, è giunto con le sue opere a strappare la terra al mare per renderla coltivabile “che anche l’acque putride scompaiono, / questa sarebbe l’ultima e più alta conquista. / Aprirei spazi a milioni e milioni / d’uomini che vi abitano / sicuri no e invece attivi e liberi. […] Sì, mi sono dato tutto a questa idea, / qui la sapienza suprema conclude: / la libertà come la vita / si merita soltanto chi ogni giorno / la dovrà conquistare. / E così, circondati da pericolo, vivano / qui il bimbo, l’uomo, il vecchio, la loro età operosa”. Immaginando questa straordinaria visione di una comunità di individui volitivi disposti a vivere in maniera audace e laboriosa, non al riparo dai pericoli, disposti a sfidare e piegare le potenze della natura, lì dove lui sta strappando la terra al mare, Faust pensa che quello sarebbe l’attimo fatale a cui potrebbe dire di fermarsi. In cui il suo streben sarebbe quietato. Ed è in quel momento, nel possibile quietarsi del suo streben, che Mefistofele si prepara a prendersi il suo premio. Dice Mefistofele: “Chi con tanta energia mi contrastava / lo vince il tempo. Il vecchio è qui disteso / sulla sabbia. L’orologio si ferma…”. L’orologio che si ferma è la fine del tempo.
La fine della storia. Il cessare dello streben, il rinunciare a questo motore essenziale della natura umana implica la dannazione, intesa come fine assoluta. Faust, tuttavia, viene salvato. Egli infatti ipotizza di poter evocare quell’attimo in cui chiede a tutto di fermarsi, ma non lo fa davvero. Il suo streben, in realtà, non cessa. Mefistofele vince la sua scommessa solo a metà. Il contrasto, motore di tutto il poema, e della tragica vita esemplare di Faust, non è realmente superato. Goethe mostra così lo spirito umano, vivo solo nell’inesauribile dinamica del conflitto. Nella pacificazione, nel contentamento, c’è la stasi; l’orologio che si ferma, la fine del tempo che non potrà che risolversi in una dissoluzione, totalità indifferenziata. Pensando a Faust, Nietzsche scriveva che se l’uomo (il tedesco) smette di essere Faust c’è pericolo che diventi un filisteo e cada in potere del diavolo. Se l’uomo smette di essere il suo divenire, la sua volontà, allora il suo spirito diventerà rigido, burocratico, destinato alla frantumazione nichilistica. Ed è un pericolo insito nella forza stessa dello streben, nel successo del suo processo. La morte di Dio causata dall’uomo, ovvero dalla sua coscienza sempre più luminosa, genera naturalmente il nichilismo, è un suo parto inevitabile e perfetto, frutto maturo, e quasi caduto, della lucidità dell’uomo, della sua coscienza che giunge allo zenit. Nietzsche cerca di salvarsi dal nichilismo sacralizzando nell’eternità dell’eterno ritorno la vita sulla terra: ogni gesto avrebbe così un valore infinito.
La poeticità e la potenza della soluzione nietzscheana ha la forza religiosa e artistica dell’illusione, non valore conoscitivo. Ma la sua intuizione sull’irrimediabile ateismo occidentale è impareggiabile. Un ateismo, scrive in Genealogia della morale, figlio del processo evolutivo della stessa morale cristiana, di una volontà di verità, “di una bimillenaria costrizione educativa alla verità, che finisce per proibirsi la menzogna della fede in Dio. […] Che cosa, domandiamocelo col massimo rigore, ha veramente trionfato sul Dio cristiano? […] La stessa moralità cristiana, il concetto di veracità preso con sempre maggior rigore, la sottigliezza da padri confessori della coscienza cristiana, tradotta e sublimata nella coscienza scientifica, nella pulizia intellettuale a qualsiasi prezzo”. Ma questo ateismo non fa esattamente scomparire il Dio cristiano e tutti i suoi valori, non genera alcuna trasvalutazione dei valori, non apre scenari indicibili in cui potrà comparire il superuomo. Perché è l’uomo, quello che Nietzsche chiamerebbe ultimo uomo, e la sua sofferenza, nell’impossibilità di una salvezza altrimenti e altrove, diviene l’unica preoccupazione per l’uomo stesso. La vittima, chiunque soffra diviene il nuovo e assoluto oggetto di culto, di un’epoca che cerca il Regno (ossia la pacificazione universale) senza volere Dio e la sua legge. Il processo messo in luce da Nietzsche genera esattamente l’opposto di quanto egli si augurava.
Il Dio “morto” di Nietzsche, infatti, non scompare. Quella volontà di verità di cui parlava il filosofo e che condurrebbe naturalmente all’ateismo, racchiude in sé, come suo più autentico motore, la volontà di salvezza, il bisogno escatologico. Il Dio che muore dunque, nella cultura occidentale, non scompare ma s’inabissa nella terra per provare a realizzare qui il regno di Dio inteso come la rimozione definitiva di ogni male, interpretato come ciò che genera dolore. L’ossessione del nostro tempo per la “vittima” non è forse l’ombra tremenda, ma rivestita di buone intenzioni, di un tentativo immanente di salvezza escatologica, di “Paradiso in Terra”? Perché solo lì è possibile che non vi siano vittime. L’idea che persino il pianeta, Gaia, sia vittima dell’azione negativa, maligna, dell’uomo, non è segno di questa escatologia tutta mondana? E qui sta il punto.
Se il male, come termine dialettico negativo, è essenziale per l’azione umana, per lo streben faustiano; se ogni determinazione, ossia ogni cosa che c’è, è negazione, ossia azione; se è l’antagonista, l’avversario, a generare ciò che è in quanto separa e divide, allora rimuoverlo è impossibile a meno che non si voglia compiere l’azione definitiva e più radicale: rimuovere l’uomo stesso, causa e fine dell’azione, per sostituirlo con un “uomo nuovo”, ossia con un essere generico, privo di tensione, di forza, di capacità di scontro. Nella fornace dello scontro si genera, infatti, il mondo, il nostro mondo! E se il più grande inganno del diavolo, come si suol dire, è stato far credere di non esistere, ecco il suo trionfo. Negandolo, negando il negatore (ciò che separa, divide, genera conflitto, ma genera anche l’azione, lo streben faustiano), pretendendo di annullare l’azione, che per sua stessa natura è divisiva, nel regno edenico del trionfo della vittima; negando il negatore, si diceva, lo affermiamo lasciandolo libero di scatenarsi non come termine negativo di una relazione dialettica, ma come termine positivo assoluto (totalmente libero). Come dissolutore che trionfa nella sua pace mortifera senza creazione.
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