Donne di guerra. Filosofe, scrittrici e attiviste ripensano il femminismo nel buio dell’occidente


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Il femminismo si interroga sul senso della sua eredità e sul futuro della libertà femminile. Donne di pensiero e di lotta cercano nuove parole per nominare la pace, il potere e il conflitto
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“In charge”, al comando, è la scritta intrecciata nella sottile catenina che aveva al collo e che ha mostrato alla stampa, dopo il consiglio del 5 giugno in cui annunciava nuovi tagli dei tassi di interesse. “La porto, guardate, per ricordare tutta la mia responsabilità”. La presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde ha voluto smentire così le voci delle sue dimissioni e di un passaggio al World Economic Forum. Profilo rapace ed eleganza da razza padrona, è talmente in alto nell’empireo del potere finanziario da farci dimenticare che è una donna. Ma quel gesto ci dice che lo è. E “In charge” ci dice che potere e responsabilità dovrebbero essere sempre legati. Christine Lagarde è una delle punte più avanzate della grande entrée delle donne nelle stanze del potere, iniziata lentamente nella seconda metà del Novecento ed esplosa in questi primi decenni di inizio millennio, disgraziatamente nel periodo più oscuro e confuso e pericoloso del nostro occidente da ottant’anni a questa parte. Questo episodio è il pretesto per porre inevitabile la domanda: quanto e quale contributo originale stanno dando le donne nella gestione del potere, o meglio, quanto il femminismo è stato in grado di trasformare, cambiare, rivoluzionare le società occidentali oltre il rapporto tra il dominio maschile e la libertà femminile? E quanto è realizzabile il grande sogno di un “cambio di civiltà”, e soprattutto quando?
Lidia Ravera scrive: “Sei diventata femminista nel disincanto e nella frustrazione. (…) E adesso che sei diventata ‘storica’ come stai?”
Scrive Lidia Ravera, nel suo ultimo libro Volevo essere un uomo (Einaudi), autobiografia intima e politica, che è anche biografia corale della generazione che ha dato vita alla seconda ondata del movimento femminista del secolo scorso. “Sei diventata femminista nel disincanto e nella frustrazione. Sei stata una femminista arrabbiata anche fuori dal grande alibi della giovinezza. Sei stata arrabbiata. Intransigente. Radicale. Lo sei rimasta più a lungo di quanto avresti mai immaginato. E adesso che sei diventata ‘storica’ come stai? Pacificata nel brodino tiepido della vecchiaia? Pronta a benedire ogni new entry nel paradiso della politica di genere?”. Più avanti si chiede in un dialogo con la più giovane Maddalena Vianello: “Quarant’anni fa non l’avresti mai immaginato questo trionfo del femminismo. Per un tempo molto lungo femminista è stato un epiteto sgradito, che la maggior parte delle donne si scrollava di dosso nervosa. Adesso è un titolo di merito, parte del corredo necessario per presentarsi in società, senza fare la figura della troglodita. Io sono femminista. E tu?”. Maddalena risponde: “C’è un femminismo che è diventato popolare. Secondo me va bene. Serve. Bisogna capire qual è il punto di rottura, fin dove siamo disposte ad arrivare prima che diventi una perdita secca di significato”.
Oggi che un’intera generazione di quarantenni brilla in tutti i campi per professionalità e autorevolezza, accettata con apparente benevolenza dagli uomini, ora che stiamo prendendo le distanze dal vittimismo, ci si può cominciare a chiedere cosa abbiamo ottenuto, e soprattutto quale voce si è imposta. Se volessimo fare un bilancio, potremmo dire che quello che abbiamo portato a casa è sicuramente l’emancipazione, in tutte le sue variabili: ha prodotto sì parità, ma resta comunque il primo e non sufficiente step della rivoluzione femminista (“la più grande e stravagante delle rivoluzioni”, copyright Alessandra Bocchetti). Ci sono state due stagioni della battaglia delle donne che hanno saputo incidere sul cambiamento culturale e valoriale collettivo: il suffragismo del primo Novecento e le battaglie sui diritti degli anni Settanta, entrambe capaci di mediare con la politica, e di rivoluzionare la società e il senso comune. Ma non basta avere più donne nelle istituzioni e nei partiti, il numero non è di per sé una garanzia di cambiamento. Lo dice una femminista storica come la sociologa Marina Piazza, in libreria con Passaggio di consegne (Enciclopedia delle donne). Pioniera in Italia dei gender studies, protagonista di un femminismo che si è misurato con le istituzioni ricoprendo molti incarichi, tra cui quello di presidente della commissione Pari opportunità nei primi anni Duemila, scrive nel suo lascito alle generazioni future: “Abbiamo lavorato, riflettuto, discusso per anni sulla difficile relazione tra donne e potere, su quel soffitto di cristallo e su quel pavimento di amianto che impedivano alle donne di arrivare al potere. Sul tema della rappresentanza delle quote, del 50&50, ha anche pesato una rappresentazione vecchia e svilente, il sospetto di una cultura di parte, di una cultura di una rivendicazione senza merito, che cerca il vantaggio particolare, che cerca di avere posti, denaro, visibilità e non di offrire una visione meno limitata, meno arrogante della realtà”. In poche parole, la fedeltà al modello maschile e la cooptazione dei propri simili hanno ostacolato una dignitosa leadership femminile. Non ha mai creduto davvero Marina Piazza all’esaltazione delle wonder women, “una trappola per rinchiuderle in un altro stereotipo”, quello delle donne come valore aggiunto, come pivot della crescita, donne necessarie perché portatrici di differenza… E invita chi aspira alla leadership a definire l’agenda delle priorità sulla base della propria voce, della propria storia. Ripartire da sé, come una volta.
Oggi “anche la differenza di posizioni femministe, piccola o grande che sia, diventa un motivo per aggredire”, scrive Annarosa Buttarelli
Una piccola corona d’oro è al collo di Annarosa Buttarelli, autorevole filosofa della differenza, fondatrice della Scuola per donne di governo, curatrice della riedizione di tutte le opere di Carla Lonzi. Gliel’hanno regalata le amiche per l’uscita del suo libro Sovrane. L’autorità femminile al governo (il Saggiatore). Quest’anno, in occasione dei cinquant’anni della Libreria delle donne di Milano, nell’edizione speciale della rivista Via Dogana stampata per l’anniversario, Buttarelli ha scritto parole forti. “Il femminismo è diventato un campo di battaglia” è infatti il titolo del suo editoriale. Ma non è il campo di battaglia di cui parlava Etty Hillesum, tutto dentro di sé, per riuscire a sopravvivere al nazismo. E’ la realtà di un movimento spezzettato, tanto che si deve ormai parlare di più femminismi. “Quando il movimento politico delle donne era vivo e travolgente, in Italia, non c’era bisogno di evocare il campo di battaglia in noi stesse, perché il femminismo ci univa tutte, anche nelle differenze di provenienza e di cultura”, scrive Buttarelli. “Ci siamo trovate un movimento spezzettato e anche diventato campo di battaglia, ma fuori di noi, cosicché ora si è persa la forza del movimento politico delle donne. Il femminismo della libertà o delle origini si trova oggi a dover contendere la lettura dei fatti e la precisione delle posizioni e delle pratiche politiche con molte altre posizioni che stanno diventando identitarie, o lo sono già. Per cui anche la differenza di posizioni femministe, piccola o grande che sia, diventa un motivo per aggredire, impedire la parola, ignorare l’autorevolezza dell’una o dell’altra, rinunciare all’autocoscienza e alle relazioni pur di portare a casa qualche soldo delle istituzioni, rifiutare il confronto trasformativo, magari anche delle proprie posizioni”. Le divisioni di oggi si sono create con l’irrompere delle più giovani, mille piccoli gruppi autogestiti, che riescono a fare rete solo nelle grandi manifestazioni contro la violenza, e che hanno trovato punti di riferimento più convincenti nel femminismo che veniva da oltre Atlantico, sotto la coperta calda e trascinante di Non una di meno, il movimento nato in Sudamerica per combattere la violenza maschile, e nell’irriverente fascino ideologico del transfemminismo e del femminismo intersezionale, entrambi di origine nordamericana. Insomma, per loro è in atto uno scontro tra le donne bianche e ricche d’occidente e il melting pot in guerra contro il neoliberismo, che fa sfumare l’identità originaria, perché gli obiettivi per le donne sono diventati un tassello di una battaglia molto più ampia, globale, che accomuna soggetti diversi, donne, poveri, migranti. (Così nel nostro orticello europeo abbiamo finito per accapigliarci sul feticcio del gender, in una querelle che assume modalità da disputa teologica…).
“Come dire ciò che ci sta accadendo?”, si chiede Rosella Prezzo, perché non basta più la parola “guerra” cui contrapporre la parola “pace”
In questa confusione anche semantica, parte del caos cognitivo globale, l’unico linguaggio che sembra comune a tutte le anime del femminismo è quello della pace, diventato cemento unificante, tutte in silenzio nelle piazze sotto la bandiera arcobaleno. Le guerre così vicine a noi le stiamo vedendo al riparo degli schermi, constata la filosofa Rosella Prezzo, che ha appena pubblicato un saggio vibrante, quasi un instant book di conforto, Guerre che ho (solo) visto (Moretti&Vitali). “Ciò che torna a riaffacciarsi è il silenzio della lingua. Come chiamarlo? Come dire ciò che ci sta accadendo? Perché non sembra bastare più la parola ‘guerra’, cui contrapporre semplicemente la parola ‘pace’, innalzata come una lacerata bandiera bianca. Se infatti la prima si autoalimenta in una sorta di orgia di distruzione e in un intreccio sempre più stretto tra guerra e tortura dei corpi inermi; nella seconda, il nostro ordinamento civico (e democratico) si contamina oltre misura con la logica bellica”. In cerca delle parole per dirlo, Rosella Prezzo analizza le caratteristiche della guerra contemporanea, mix infernale di barbarie e tecnologia, e poi assume la domanda della Cassandra di Christa Wolf: è possibile sapere quando comincia la guerra, ma quando comincia la vigilia della guerra? La sua risposta è che pensare e dire la pace significa innanzitutto pensare l’impensato della pace, e donne del Novecento come Simone Weil, Virginia Woolf, Hannah Arendt, Maria Zambrano, che hanno riflettuto sulla Seconda guerra mondiale, ci possono dare una mano con il loro pensiero. Forse perché soltanto le donne, così estranee all’epica della forza, possono trovarne il non-detto.
“Abbiamo dato per scontato che il femminismo coincida con la sinistra, forse ci dovremmo chiedere se la sinistra è femminista”, dice Marina Terragni
“Non credo allo stallo del femminismo, la conflittualità c’è sempre stata, è la fatica della fine del patriarcato”, dice Marina Terragni, da sempre di sinistra e rea agli occhi di molte per aver accettato l’incarico istituzionale di Garante per l’infanzia da parte del governo Meloni (“perché abbiamo sottovalutato la portata simbolica della prima presidente donna?”). Giornalista di lungo corso e scrittrice, lavora con circuiti internazionali come la rete di RadFem, è rappresentante italiana della Declaration on Women’s Sex-Based Rights – Women’s Declaration International e nel 2024 ha presieduto il Gender Equality Advisory Council del G7. “Nel resto d’Europa e in America il clima è più aperto, ci si confronta. E se la ministra Eugenia Roccella condivide le battaglie contro i farmaci che bloccano la pubertà, contro la gravidanza per altri, contro i trans e gli intersex negli sport femminili, io accetto di collaborare. Su certe battaglie si deve lavorare insieme, diceva Simone Weil, e superare le divisioni di appartenenza. Il femminismo è nato con l’ambizione di essere universale, senza farsi impantanare nelle logiche di spartizione politica. Abbiamo dato per scontato che il femminismo coincida con la sinistra, ma forse ci dovremmo chiedere se la sinistra è femminista… Non so se sia proprio dalla parte delle donne l’ultima proposta del Pd sul congelamento degli ovuli come diritto. E’ un altro colpo alla centralità e integrità del corpo della donna. E sulla Pas, la sindrome di alienazione parentale, che colpevolizza le madri separate, sull’affido condiviso che si rivela una forma di violenza maschile. Sono questi i temi che contano per le donne, programmi di politica femminista concreta”.
Riavvolgo il nastro, e torno a un convegno a Roma a febbraio di quest’anno al cinema Farnese, “Il permesso del mondo”, promosso da due figure storiche del femminismo romano, Alessandra Bocchetti e Franca Chiaromonte, 150 donne da tutta Italia, in un dibattito che coinvolge intellettuali e attiviste. “Le vedete le donne in guerra? Davanti alle difficoltà si armano di un pentolino, una rapa e di un tizzone per accendere il fuoco… Beh, dobbiamo ripartire dall’essenziale anche noi, da quello che era ed è il femminismo. Cosa siamo disposte a fare per difendere la libertà delle donne in tempo di guerra?”, dice Paola Mastrangeli, decana della Casa internazionale delle donne di Roma. “Dobbiamo ricreare un circolo virtuoso, superare le appartenenze, niente di buono ci viene dalla guerra tra donne, il conflitto non è un segno di libertà”, dice Alessandra Bocchetti aprendo il dibattito. “Tutto quello che abbiamo fatto chi lo racconta alle ragazze?”. Il parterre ha bei nomi: Nadia Fusini, Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo, le due filosofe autrici di Donna si nasce, Letizia Paolozzi, Linda Laura Sabbadini, la più ottimista di tutte (“vi assicuro che stare dentro le istituzioni è difficilissimo, ma abbiamo un tesoretto: ripartire da noi, curare le relazioni”), Francesca Izzo, Maria Serena Sapegno e Cristina Comencini dello storico movimento “Se non ora quando”, e un’appartata Livia Turco che prende appunti per tutto il tempo. Allora, rimboccarsi le maniche, ragazze.
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