Abbattere gli stereotipi nelle console: ma le ragazze che giocano ne hanno bisogno?


Foto di Anton Shuvalov su Unsplash
Videogame in rosa
Quando voler parlare a tutti i costi di rivoluzione, di rottura degli archetipi e di superamento del passato sembra più una mossa al servizio del marketing che vero impegno. L'indagine di Giulia Martino e Francesco Toniolo sulle donne nell'industria videoludica
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Streghe, principesse, intelligenze artificiali: queste e un milione di altre sono le rappresentazioni dell’universo femminile che incontriamo (o impersoniamo) nei videogiochi. A esplorare queste ipostasi rosa ci hanno pensato Giulia Martino e Francesco Toniolo. Giurista ghisleriana e critica videoludica lei, docente in Cattolica (e non solo) lui, nelle pagine di PlayHer. Rappresentazioni femminili nei videogiochi (Tlon, 2025) i due giovani studiosi propongono un’indagine basata su tredici casi tratti sia da videogiochi blockbuster che sconosciuti ai più. Un lavoro riccamente documentato che presenta tanta carne al fuoco (con rischio di indigestione). Cosa ci dice delle donne l’industria videoludica, un colosso da 187 miliardi di dollari, con più di due miliardi e mezzo di giocatori maggiorenni?
Passa il tempo anche per i gamer: eppure, se Kratos (il popolare protagonista della serie “God of War”) con gli anni s’è fatto papà, perché papà son diventati i pargoli che un tempo scalavano con lui le vette dell’Olimpo a suon di legnate, le console tuttora non pullulano di madri. Prevalgono ancora le bombe sexy vittime di ogni stereotipo. E anche quando una casa importante come Sony decide di costruire il mondo matriarcale della giovane protagonista Aloy (“Horizon Zero Dawn”, 2017) impegnata a salvare il mondo (e l’ambiente), “l’attenzione dimostrata alle tematiche ecologiche non si riflette nel gameplay, dominato da scene di combattimento e da una risoluzione violenta dei conflitti […]. La compassione dovrebbe essere un valore fondante delle società definite come matriarcali da parte dell’antropologia [ma] il titolo privilegia la violenza piuttosto che il dialogo”. Insomma, la compassione non vende: ancora tirano di più le botte da orbi e lo sfruttamento spietato delle risorse.
Non mancano altri furbacchioni, per essere in linea coi tempi moderni. Un’altra mossa ipocrita riguarda il recente capitolo della decennale saga di “Legend of Zelda”, “Echoes of Wisdom” (2024), titolo in cui i giapponesi di Nintendo inventano che sia la principessa Zelda a dover salvare l’eroe Link e non il contrario (come usuale nel franchise). Eppure, “voler parlare a tutti i costi di rivoluzione, di rottura degli archetipi e di superamento del passato sembra più una mossa al servizio del marketing” che altro. In effetti, “non c’è nulla di davvero nuovo, la principessa era una figura centrale e attiva già da molto tempo, all’interno della serie”: pertanto, non occorreva imbellettare quest’ultima di rosa.
Non sono poche le donne (di ogni età) che amano i videogiochi e vi si applicano con passione. Sarebbe interessante chiedere a Martino e Toniolo se possediamo una stima del loro numero. Ma dovrebbero esse indignarsi del seno esagerato di Lara Croft o di dover salvare la principessa Peach impersonando Super Mario? O forse, mentre giocano, pensano a svagarsi, e non si disgustano anche loro ad affibbiare sotto formose sembianze qualche tossica (e virtuale) mazzata?
Esistono le eccezioni virtuose che problematizzano (per lo più di nicchia, come l’inquietante “The Path”, 2009). Ma se a tirare per la maggiore sono Samus, Lara Croft e Peach, “al contempo icone femministe e stereotipi sessisti” (J. Hansen), come ne usciamo? Forse, sotto sotto, non occorre.
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