“Un posto per Pierrot”: la lotta tra una sorella e il fratello autistico

L’OPINIONE DEL “MONDO” – PERCHÉ NO
Rimproverata per il suo calo di rendimento sul lavoro, la protagonista di "Un posto per Pierrot", avvocato in uno studio parigino, confessa al suo capo di avere un fratello maggiore autistico e di doversi prendere cura di lui. Il superiore improvvisamente si mostra comprensivo, ma anche infastidito dal fatto che non glielo abbia detto prima; dopotutto, non è un bullo, le chiede. Prosegue: "Ma è un tipo da Rain Man?". In sua difesa, il film di Barry Levinson, con Dustin Hoffman (1988), ha a lungo fornito l'unico repertorio mitologico disponibile sulla sindrome autistica, che ora sappiamo avere un'ampia prospettiva.
Mentre vecchie categorie sociali, identitarie o psicologiche affiorano in molteplici varianti e ibridazioni, la narrativa cerca di coglierle al volo. L'autismo non fa eccezione, in particolare con il sorprendente trionfo di Un p'tit truc en plus di Artus (2024).
Così, Camille (Marie Gillain), un'avvocatessa divorziata e sopraffatta, decide di allontanare il fratello Pierrot (Grégory Gadebois) dalla residenza specializzata che lo sta sommergendo di pillole e di accoglierlo nel suo appartamento mentre gli trova una nuova sistemazione. La situazione si trascina. La figlia adolescente inizia a stancarsi, l'ex marito (Vincent Elbaz) è preoccupato. Un amico fedele (e troppo perfetto) (Patrick Mille) le parla di una fattoria sulla Costa d'Opale (Pas-de-Calais), in riva al mare, che impiega persone autistiche nei suoi campi. Ci proviamo.
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Le Monde